giovedì 30 ottobre 2008

HELLP amica mia

Pubblicazione a cura del Istituto Superiore di Sanità
 Concorso Il Volo di Pegaso 2008
HELLP amica mia
di Diana Mayer Grego

La prima volta che venisti da me ti mostrasti in tutta la sua crudeltà, entrando come un lupo nel mio corpo e mordendo con tutta la sua ferocia la mia carne, togliendomi la capacità della ragione, piegando in due la mia schiena, come se una barra dividesse in due il corpo debole.

Ebbi la fortuna che una dottoressa anestesista ti riconobbe e iniziò subito la terapia per arginarti, lei fu il primo caso in quel ospedale, io il secondo dopo 14 anni.

Iniziasti a danzare con il mio fegato avvelenando il mio sangue distruggendo i globuli rossi, facendo calare vertiginosamente le piastrine.

Nella tua danza macabra impossessatasi del mio corpo, prendesti il sopravvento sulle mie difese e il mio corpo ti lasciò danzare, venni ricoverata in rianimazione.

Sentii per la prima volta il tuo nome, HELLP SYNDROM una complicanza della gravidanza che viene nello 0,2 dei casi.

Il sangue avvelenato nutrì la bimba che portavo in grembo.

Le trasfusioni davano il loro effetto positivo, miglioravo, fu deciso di dimettermi dalla terapia intensiva, ti sottovalutarono non conoscendoti.

Il giorno seguente passò tranquillo ma ero agitata, sentivo che qualcosa non andava, eri tu che stavi tornando, stavi ricominciando a ballare. Iniziai a sentirti crescere dentro di me, BESTIA, avvisai il personale, dopo poco ero di nuovo in rianimazione.

Le piastrine erano calate, il fegato non funzionava.

Quella notte ti sedesti sul mio letto e, come la peggiore delle matrigne, con il tuo ghigno maleodorante pieno di morte, mi sussurrasti nel orecchio la tua vittoria.

Amica mia, avevi cantato troppo presto, non avevi fatto i conti con la scienza, con i medici, con il mio corpo stanco ma disposto a morire per salvare la vita nel suo grembo.

Quella notte, in un ricordo confuso, l’andirivieni di tanti medici, che apparivano e scomparivano come spettri nella notte, signora ora sistemiamo tutto.

Cosa c’è da sistemare? Lei è tornata o forse non è mai andata via, vi ha ingannato illudendovi di averla sconfitta!

“Ho tanta paura, sono ore che sono sotto plasmaferesi. Sono stanca, la bimba sta bene?”

Crollai sfinita e sedata.

Quando mi svegliai avevo un fastidio al collo, istintivamente mi toccai: era un tubo.

Guardai la mia mano, un altro tubo usciva dal polso destro, era collegato a dei marchingegni e ad un monitor; un’infermiera mi spiegò che mi avevano preso un’arteria e quello serviva per prelevare il sangue senza dover fare un buco ogni quattro ore. Quello che usciva dal collo (CVC) si divideva in altri tre che erano collegati a delle sacche attaccate ognuna ad un monitor; quello primario entrava nella mia carne ed era cucito sulla pelle.

Altri tre tubi uscivano dal mio braccio sinistro, anche questi erano collegati a macchinari.

Tutti questi macchinari e monitor suonavano ed il loro suono entrava nelle mie orecchie e mi tormentava.

Lo stimolo di un bisogno fisiologico mi fece rendere conto di avere anche il catetere.

Era arrivato il giorno di Pasqua ed ero ancora lì, con te amica mia, che cercavi di vincere la vita; il mio corpo stanco non reagiva e tu sempre più cattiva ti stavi portando via il frutto del nostro amore.

La situazione si complicò, ebbi bisogno di essere trasferita nel centro dialisi di un altro ospedale. Altri medici, altri infermieri, tutto un fervore intorno alla mia barella: fili, tubi, monitor e il mio sangue usciva per entrare in una macchina e una volta pulito rientrava nelle mie vene, ma la vena collassò; il sangue uscito che si trova nei tubi si era coagulato guardai l’infermiera buttare i tubi pieni del mio sangue avvelenato, alla mia bimba mancherà il sangue?

Riposizionarono la macchina con i tubi nuovi, e sentii il mio sangue uscire dal mio collo e rientrare freddo; una sensazione di schifo misto a paura.

Al mio rientro nel ospedale, trovai pronte ad aspettarmi due sacche di sangue, il pranzo pasquale. Ti chiamai amore mio:  “Mi hanno passato all’autolavaggio, ti aspetto … in questa stanza con quattro letti senza alcun separé, senza alcuna intimità, dove per fare il bidet si usa la padella e ci si fa lavare da mani estranee, dove non si beve, non si mangia, non si parla, dove la luce dei neon che fisso dalla mia posizione, è sempre uguale, giorno e notte.

Intanto il sangue del mio amico sconosciuto entrava nel mio corpo e irrorava le mie vene, bimba mia, iniziasti a muoverti dopo ore di sonno profondo, eri stanca, povera figlia mia.

L’intervento nel reparto dialisi aveva sortito l’effetto sperato, ti avevamo fermata. Per tre giorni la situazione fu sotto controllo, ma la bimba soffriva, perdeva peso, era stanca di lottare. La sua situazione peggiorò e si dovette procedere ad un cesareo per darle una possibilità. Nacque nostra figlia Giada, minuscola bambolina, stanca e avvelenata, che, nonostante le cure premurose, smise di lottare e dopo tre giorni lasciò scivolare la sua vita in un oblio di serenità.

Quanto ti ho odiata amica mia, hai martoriato il mio corpo per poi alla fine prenderti il bene più prezioso! I danni da te cagionatimi nel corpo, sono scomparsi dopo due anni, ma i danni nella mia mente ancora vagano nel buio della notte come fantasmi a disturbare il mio sonno.

Mi ha lasciato qui con il mio carico di dolore e conoscenza, mi hai dato la possibilità di combatterti con i pochi mezzi che possiedo, ma lotterò ogni giorno per trovarti, a volte penso che io e te ormai siamo una sola cosa, senza di te oggi non sarei mai divenuta migliore.